Du’ mmannèlle dde poetà
Dieci come le dita delle mani, questi sonetti in endecasillabi cantaliciani di Alfredo Dionisi, che qui di seguito si propongono. Cinque e poi cinque ….., come le mmannelle di spighe raccolte ad arte, secondo la giusta maniera, dalle dita della mano sinistra del mietitore, per comporre il covone del grano (‘a gregna). Un’attività durata millenni, quella del taglio del grano con il falcetto, oggi scomparsa, sostituita dalla trebbiatura meccanica. Ma l’arte ancora più antica del poetare, nata con la parola che connota gli umani, continua a organizzare fonemi secondo la giusta misura di ritmo e di suono, per comunicare il filo ininterrotto delle emozioni umane, i colori, le immagini, i pensieri, le narrazioni …. per dire la vita e ricercarne il senso.
Alfredo Dionisi per i suoi componimenti usa un dialetto che rifugge dalla civetteria degli arcaismi e da chiusure puramente campanilistiche o grevemente popolari. Il suo linguaggio risulta dell’impasto di un dialetto cantaliciano imparato in famiglia accanto all’italiano (lingua madre e poi di cultura) e di contaminazioni colte o provenienti da altri dialetti, non solo limitrofi (p. es. fuffa). Non si tratta quindi di lingua legata esclusivamente a un mondo che non c’è più o che parli soltanto a una cerchia ristretta di paesani. Esso inerisce al mondo dell’Autore, il quale vive consapevolmente la contemporaneità e tuttavia sente di avere radici che provengono da lontano. Non soltanto per l’insieme di secolari valori umani che porta con sé, ma anche per l’atteggiamento con il quale egli si pone di fronte alla vita, alla natura, al mondo degli uomini e agli animali: la meraviglia (ma anche lo sgomento) di chi esce da un nido protetto (e ristretto) per riguardare e affrontare orizzonti più vasti; la nostalgia del ritorno, nella consapevole impossibilità di un viaggio a ritroso, nella giovinezza adolescente che si identifica con il luogo dell’imprinting (cfr.: «‘A casa», «Penzènno a Cantalice») e con la sua parlata. Allora il dialetto diviene la “coperta di Linus” o l’ombra materna che guida e rassicura, la lingua dell’intimità del poeta e delle piccole cose familiari cui egli particolarmente si lega. E quando diciamo le cose, non va dimenticato che qui, di solito, esse hanno funzione di simboli, sono metafore, alludono ad altro (vd. ….. ‘a piana rietina / e coçì tantu me nne ‘nnamorai … ). Anche i dettagli più minuti spesso oltrepassano un apparente realismo per suggerire dimensioni altre (in «‘A casa», /‘a bocaletta …. ‘n pó sbeccata/ rinvia al tipico conservatorismo affettivo degli anziani e/o alle abitudini parsimoniose del mondo paesano e contadino).
L’ispirazione di Alfredo Dionisi proviene da una musa all’apparenza dimessa, ma che ha frequentato il Parnaso e ha praticato i classici: semplice ma non ingenua, spontanea a volte magmatica, perentoria e pervasiva a suo dire. Ma qui sì, una forse involontaria civetteria: reminiscenza estetico letteraria che rimanda all’invasamento del poeta da parte del dio:
‘Na vóce sènto ‘n càpu che resòna;
nón ‘a soppòrto più, me rembambìsce.
‘I vèrsi ùnu pé ùnu me scandìsce
e fìnu a che nó ‘i scrìo nón se sta bòna. 4
Glié l’àjo ìttu: – Nó sta a fà ‘a cafòna!
Ma éssa nón ‘a ntènne; nón capìsce.
Nemménu quànno dòrmo s’azzittìsce…
‘U càpu a tùtte l’óre me rentròna! 8
Sentimentale e romantica, la musa, è però anche provvidenzialmente ironica e disincantata. Quotidiana, autobiografica, contingente, tuttavia mai banale, più spesso pensosa, profonda ‘n cérca de risposte (cfr.: «’O bene pé vie repóste»), anche se travestita da Befana o alla Pasquino, satirica e burlona (cfr.: «‘A via de mandrìtta»; ma l’esilarante immagine del verso di chiusa in «L’alluvione», col sovrappiù della beffarda sovversione metrica). Comunque povera, la musa (il poeta conosce l’adagio carmina non dant panem) non darà utili: al massimo una /….fama de giullare! /.
Èssote se qué è l’ispirazióne!
Nón è ‘na Mùsa che quànno te pàre.
‘a chiàmi e te respónne: è un tormentóne
che non te ‘à tràgua; è còme ‘na commàre: 12
pretènne jórnu e nòtte l’attenzióne
e t’òffre in cambiu ‘a fama de giullare!
Questa musa dialettale non è mai, dunque, meramente vernacola. Fluisce di immagini e di pensieri che si innalzano sullo zenit della occasionalità e laddove ti aspetteresti una locale “pianàra” ti ritrovi in una «laguna veneziana» (cfr.: «L’alluvione»); così come lo sguardo che sorvola sul qui non per questo distoglie l’attenzione dall’universale, come la sciagura che tutti coinvolge, sempre pronta ad accompagnarsi a un di più di paura (ivi; «‘A pestilenza»).
Non è infrequente che dai versi di chiusa, con fulminea epigrammaticità, emergano immagini che sorprendono e quando ci coglie lo sgomento, per esempio davanti all’ eccesso, un ironico sorriso ci soccorre a stemperare la morsa del destino ferrigno che si accanisce.
(Vincenzo Scasciafratti)